Il primo sole – Prologo – Parte 1

Prima degli Egizi, dei Greci, prima della nascita dei miti e delle leggende, in un tempo sconosciuto e ormai dimenticato, la Terra aveva un aspetto completamente diverso da quello attuale. Uno sciame di meteoriti si era abbattuto su di essa portando qualcosa che gli uomini non avrebbero mai dimenticato…Qualcosa di inafferrabile come il vento, la cui consistenza è pari a quella di un sogno…la magia. E come in tutte le storie dove il bene il male si sfidano, non possono mancare una piccola compagnia di eroi e un ragazzo e una ragazza che si battono per cambiare il loro mondo.

Il racconto, a cadenza settimanale, è di Eleonora Poltronieri con le illustrazioni di Irene Patara.

Copertina di Irene Patara (acrilico su foto) con Renzo Brugnatti, Marco Menegatti ed Eleonora Poltronieri

PROLOGO – PARTE 1

Jerermis (Stefano Marchesini) mentre trasporta la sacca contenente il Nexus. Illustrazione di Irene Patara

PROLOGO – PARTE 1

Il cielo rifletteva ciò che stava accadendo in terra. Nuvole nere come la pece avanzavo minacciosamente ad est della vallata. Un tuono, profondo e assordante, disperdeva la sua eco fra le colline delle Terre di Chtonian. Qualsiasi forma di vita che in quel momento popolava la valle avrebbe potuto riconoscere senza alcuna difficoltà che non si trattava di un fenomeno naturale, non era colpa del cielo, dei venti o delle nuvole che cozzavano una contro l’altra. No, era il suono dell’arroganza, di una smodata ambizione…della meschinità. Era il suono che annunciava l’arrivo del Signore del Cielo Oscuro e del suo esercito. 3000 uomini che avanzavano avvolti nelle loro vesti e armature color dell’ebano, ravvivate quasi esclusivamente dal luccichio argenteo delle loro armi. Il sole stava per essere inghiottito, oscurato, dimenticato…l’esercito avanzava quasi come se fosse l’ombra di quella coltre fumosa e invalicabile di nuvole.

Lo scenario apocalittico che si apriva fra le colline della città di Akras appariva come una visione davanti agli occhi di tre uomini che in quel momento si trovavano fuori dalle mura delle città. Tre sagome che a malapena si distinguevano fra la vegetazione che cresceva impervia sui crinali. I loro occhi erano spalancati, i loro sguardi quasi assenti. Da ore ormai erano disperatamente alla ricerca dei frammenti di un materiale di origine ancestrale, una pietra dalle proprietà uniche ed eccezionali: il Nexus. Ad un certo punto una delle tre figure, un uomo abbronzato con una folta barba, si rese conto che la paura che lo stava immobilizzando di lì a poco sarebbe stata fatale. E non soltanto per lui e i suoi compagni. «Presto…torniamo ai cavalli!» cercò di pronunciare in modo risoluto, ma ne uscì per lo più un rantolo. Raccolse bruscamente un lembo della clamide di tessuto grezzo sulla spalla sinistra, si voltò come un fulmine, seguito dagli altri e fece per precipitarsi verso la valle, dove avevano lasciato i cavalli. L’uomo che gli stava accanto lo trattenne per un braccio. «Jeremis…è rimasto sul versante ovest». Un’ombra attraversò lo sguardo dell’uomo barbato. I tre si misero a chiamare Jeremis a gran voce ma la risposta tardava ad arrivare. «Vado a cercarlo» propose uno di loro. «No – disse l’uomo barbato – è troppo tardi, dobbiamo arrivare ad Akras prima dell’esercito». I tre si diressero a malincuore verso le cavalcature mentre Jeremis, ignaro di tutto, stava accovacciato sul terreno, raccogliendo finalmente i frutti di una giornata di ricerche. «Ecco qua – disse fra sé e sé divertito – e loro che non ci credevano… “Cosa vai a fare Jeremis sul versante ovest?…ci sono solo sassi e sterpaglia..”; ora Ligorio, come promesso, dovrà pagare il banchetto per il mio matrimonio» e già il sorriso della rivincita gli compariva sul volto quando ad un tratto…quell’espressione si contrasse e si trasformò in qualcosa di diverso. Un suono sinistro, innaturale, echeggiava sui rilevi scoscesi delle colline. Un suono soffuso ma che a seconda dello spirare del vento, diventava più acuto o più grave. Jeremis si impietrì. No, per tutti gli dei – pensò – non il giorno prima del mio matrimonio. Fece una smorfia degna della migliore maschera teatrale e dopo aver infilato la grossa pietra dentro la sua sacca di cuoio, si fece coraggio e cominciò a correre furiosamente verso i cavalli. L’enorme peso della pietra e la sua forma spigolosa certo non gli rendevano le cose facili e le sue piuttosto che falcate erano passi goffi e zoppicanti. La sua sagoma, agile, snella e non troppo alta, saettava fra gli ulivi e il suo chitone verde scuro quasi si confondeva con i cespugli di mirto. Ma doveva correre come non aveva mai corso in vita sua. Tutta la città di Akras sapeva che l’esercito prima o poi sarebbe arrivato ma nessuno pensava che ciò sarebbe successo con tale anticipo. Giunse correndo nel punto in cui avevano lasciato i cavalli e si rese conto che i suoi compagni erano già fuggiti. E, a quanto pareva, anche il suo cavallo. Era completamente solo. Se non trovava velocemente un modo per svignarsela di lì a poco non si sarebbe trovato fra le colline di Akras ma direttamente nell’Oltretomba. Abbozzò un sorriso tragicomico: come sempre sono il favorito degli dei…. L’ironia non gli mancava. «Jeremis siamo qui!», Ligorio era circa a 600 passi da lui, aveva girato il cavallo e gridava a gran voce. Stava tornando indietro a prenderlo. La sua folta barba scura e svolazzante seguiva nel movimento l’andatura impetuosa dell’animale. Gli occhi di Jeremis si riempirono di speranza ma le sue orecchie, ancora una volta, avvertirono un suono che gli fece venire la pelle d’oca. Si voltò verso l’esercito. Quattro cavalieri avevano abbandonato la nera compagine e stavano avanzando a tutta velocità verso Akras. Guardò meglio. Verso di lui. Poteva percepire il loro sguardo, i loro occhi su di lui. Sapeva bene chi erano. Erano i quattro strateghi al servizio del Signore del Cielo Oscuro. Anche Ligorio li aveva visti e il suo volto dalle sfumature abbronzate si stava colorando di rosso rubino. Jeremis prese a correre verso l’amico, terrorizzato dal fragore degli zoccoli dei neri e maestosi cavalli degli strateghi. La pietra gli pesava come un macigno ma, soprattutto in quel momento, non l’avrebbe mai lasciata, per nulla al mondo. Intanto sopra di lui le nubi si affollavano, come un branco di lupi affamati e insoddisfatti. Ancora pochi passi e sarebbe saltato sul cavallo di Ligorio. Poi, sotto gli occhi increduli e sconcertati dei due uomini, accadde qualcosa di inimmaginabile. Con un profondo boato la superficie cominciò a tremare e fra i due la terra si aprì. Il cavallo di Ligorio per poco non finì per essere inghiottito dalla profonda faglia mentre il suo cavaliere purtroppo venne disarcionato. I due amici, sulle sponde opposte dell’apertura, si cercarono con gli occhi. «Ligorio, ho la pietra!»; «Jeremis non c’è tempo, lasciala andare e prova a saltare! Sbrigati stanno arrivando!» Ligorio urlò rialzandosi. Non ne voleva sapere di abbandonare il suo apprendista architetto. Il rumore degli zoccoli annunciava l’imminente arrivo dei cavalieri. Jeremis rimase fermo nella sua convinzione: si sarebbe assicurato che il prezioso carico arrivasse nelle giuste mani o sarebbe morto proteggendolo. Gli atti di coraggio non erano proprio il suo forte ma se non avesse quantomeno provato, la sua futura moglie, Febe, non l’avrebbe più guardato in faccia.  Spiccò il salto. L’aveva già fatto diverse primavere fa, quando era solito allenarsi al salto in lungo con i suoi compagni di studi. Gli era sempre riuscito abbastanza bene. Mentre stava lì, sospeso a mezz’aria, ripensava alle facce dei suoi compagni che lo incitavano con vigore e ammirazione. Peccato non ci fossero in quel momento. Quello era senza dubbio il suo salto migliore…purtroppo non sufficiente a raggiungere il lato opposto della faglia. Ligorio era lì, dall’altra parte, con la mano protesa, pronta ad afferrare quella dell’amico. La sua speranza, la sua salvezza erano lì. Maestro e apprendista stavano quasi per sfiorarsi…Ma il pesante fardello era più forte. In quel momento Jeremis capì che non ce l’avrebbe fatta. Febe – pensò – io ci ho provato… La poteva vedere, con il suo sopracciglio rialzato e lo sguardo di disappunto. Poi il giovane sentì qualcosa…come uno spostamento d’aria, una sottile brezza. Un suono simile ad un battito d’ali di un falco…un falco di notevoli dimensioni.

In un istante invece di continuare a piombare sempre più giù, fra le profondità rocciose, Jeremis si trovò a risalire verso l’alto. O son morto – pensò – o altrimenti può essere solo…Si mise con il naso all’insù e allora lo vide. Il suo sospetto divenne certezza. Una delle creature leggendarie più antiche dei quattro regni, l’harmakis, aveva afferrato la sua bisaccia e il giovane architetto ora penzolava aggrappandosi ad un manico della stessa. Un leone con le ali di falco…Jeremis conosceva l’harmakis esclusivamente grazie alle belle raffigurazioni sui vasi e sotto i portici magistralmente affrescati di Akras. In un battito d’ali Jeremis si trovò sospeso a 40 passi da terra e l’harmakis non accennava a voler tornare sulla terraferma. Sotto gli occhi sbigottiti di Ligorio, il suo migliore allievo stava per essere trasportato direttamente dentro le mura della città. Il cuore dell’uomo dalle carnagione scura si stava riempiendo di speranza: tutti sapevano che l’harmakis era una creatura agli ordini di re Berniorn. Forse il re era in viaggio e il suo arrivo avrebbe potuto cambiare le sorti dell’imminente assedio. Per un istante, quando l’animale era disceso dal cielo, un fugace ma deciso raggio di sole era riuscito a perforare quella infinita coltre di nuvole. Ligorio fissò i quattro strateghi che ora erano giunti presso la faglia. «So che è stato lui- urlò – so che è stato quello che voi chiamate re a far tremare la terra ma, come avete visto, il vero e unico re sta arrivando!». Uno di loro, un uomo dalla testa rasata, aprì le labbra in un sorriso che aveva qualcosa di innaturale. «Il vostro re è morto»…pronunciò queste parole come se fossero state piccole lame ma mortalmente appuntite.

Eleonora Poltronieri

Grafica:Mattia Ferrari

 

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