Il primo sole – Capitolo III, parte 1

IL PRIMO SOLE –  CAPITOLO III – PARTE 1

La porta era chiusa. Il legno consumato e caliginoso emanava un odore pungente. «E ora dove troviamo la chiave?», Jacklin camminava spazientita avanti e indietro, meditando. Kalinda si era avvicinata all’ampia serratura, cercando di sbirciare all’interno. Oscurità completa. «Aspetta – Jacklin si mise una mano sulla fronte, l’aiutava a riflettere – la canzone di mia madre suonava così: “pensa alla storia del re senza identità, quella è la chiave del regno che ti apparterrà”…ma chi può essere il re senza identità?». Kalinda senza dire una parola strappò la torcia dalle mani dell’allieva e si avviò frettolosamente al piano rialzato della biblioteca.

Nell’illustrazione di Irene Patara, Nefer Kerenut (Luca Garcina) e Origon (Tonino Bertazzoli) mentre fanno ingresso nella cripta 

Si fermò davanti ad uno degli scaffali che chiudevano le fila. Su quei ripiani si trovavano i manoscritti incompleti e meno consultati. Appoggiò la torcia ad uno degli infissi in bronzo sulla pareti e si mise a rovistare su un ripiano. «Ma cosa cerchiamo esattamente?» chiese Jacklin che l’aveva seguita, sopraffatta dall’agitazione.«Vedi mio cara – cominciò l’archigena, porgendole un manoscritto – sono quasi sicura che…». Un suono metallico fece sussultare Jacklin. Qualcosa di luccicante era caduto dal papiro. Chinandosi verso il pavimento la giovane lo sottrasse all’avida ingordigia delle ombre. Era la chiave. «Che ti avevo detto…-saltarellò vittoriosa Kalinda – il re senza identità è Uth. Il suo nome è stato cancellato da qualsiasi testo o epigrafe, distrutti i suoi simulacri e i suoi templi. Grazie a Bromiorn, Uth, il Re del Cielo, divenne nessuno. Ma non per Leah. Lei custodì questo racconto sulle gesta del dio per non dimenticarlo». Mentre Kalinda continuava a ricordare con affetto ed elogio la donna che per lei era stata come una sorella, Jacklin aveva già inserito la chiave nella serratura. Lo stridore della chiave che girava nella toppa indicava senza dubbio che quella soglia non veniva varcata da tempo immemore.

Oltre la porta, un odore feroce di luoghi umidi, putridi, dimenticati dalla luce. «Kalinda, allungami la torcia»: Jacklin era decisa ad entrare, sebbene una corrente gelida la stesse attraversando. Come la terra che emerge dalla acque, così dall’ombra emerse chiaramente la struttura di un tunnel piuttosto stretto e alto quanto due persone. Dopo un breve tratto, il percorso proseguiva con alcuni ripidi scalini che conducevano ad un ambiente sotterraneo. Jacklin si sentiva stranamente eccitata per quella nuova avventura che quasi le faceva dimenticare gli sconvolgenti eventi della giornata passata. Ad un certo punto, terminata la scalinata, si trovarono di fronte ad una parete. Il tunnel proseguiva o a destra o a sinistra. Davanti a loro, appoggiate alla gelida pietra si trovavano due lance incrociate, simili a quelle rappresentate sullo stemma di Eldyron. Erano avvolte dalla polvere e dalle ragnatele. «E ora? Come facciamo a sapere qual’è la strada giusta?» Jacklin continuava a girarsi da una parte e dall’altra, disorientata. « “E quando sarai nell’ombra, laggiù troverai speranza, nel simbolo della forza, si trova la tua salvezza” faceva così la canzone giusto? – Kalinda possedeva un’ottima memoria -….il simbolo della forza potrebbe corrispondere allo stemma della nostra città. La stessa parola “Eldyron” se non sbaglio contiene il lemma “ron” che in chtoniano antico significa “forza”». «Ci sono! – esplose Jacklin – dobbiamo andare a sinistra!». Questa volta era Kalinda ad essere perplessa. «La canzone prosegue con una serie di “gatto” e “lupo”, i due animali che si trovano alla sinistra e alla destra delle lance incrociate. E le lance simboleggiano l’incrocio di due strade!». «Oh, lo vedi che sei anche tu un piccolo genio…ma adesso ascolta. Torniamo indietro e prepariamo alcune cose per il viaggio, avremo bisogno di qualche soldo e di provviste. Approfittiamo dello scompiglio di questa notte. Anche se manca poco all’alba, le guardie saranno ancora stordite».

Uscirono dal tunnel di soppiatto e chiusero a chiave la porta della biblioteca. Jacklin rientrò nella sua camera, indossò pantaloni di fattura nestidiana e un corpetto che aveva ereditato da sua madre. Pensò ad un’arma da poter portare con sé. Non possedeva pugnali e non sapeva utilizzare una spada. Si ricordò poi del bastone che utilizzavano in cucina per cuocere le carni all’interno del forno. Le estremità metalliche a cui venivano agganciati i forconi erano metalliche. Scivolò come un fantasma nelle cucine. Alcuni inservienti stavano ripulendo ma non avrebbero dato peso alla sua presenza. Prese un po’ di frutta secca, un sacchetto di mandorle, del pane e del formaggio. Trovò il lungo manico e ne staccò il forcone. Le due estremità e la parte centrale erano ricoperte da cilindri in metallo. Con le sue abilità archigene avrebbe potuto comandarlo anche senza toccarlo. Ora aveva tutto. Fuorché la libertà, quella l’avrebbe trovata al di fuori del palazzo. O avrebbe trovato l’ignoto? L’archigena Karen avrebbe dato risposta alle sue domande? Doveva muoversi. La notte avrebbe lasciato posto al giorno nel giro di poco.

Lei e Kalinda si ritrovarono all’ingresso della biblioteca. Quando si introdussero nuovamente nel tunnel, Kalinda ebbe la premura di richiudere il passaggio segreto. Agitò i polpastrelli e la libreria tornò al suo posto gettando le due donne nell’oscurità e nei freddi anfratti di quel labirinto. Armate di torce e con le loro sacche di cuoio sulle spalle si misero in cammino e seguirono la”mappa musicale” ideata da Leah. Ai primi tre incroci presero la strada di sinistra. L’ordine era “Gatto, gatto, gatto, lupo, lupo, gatto gatto”. Stavano per raggiungere il quarto bivio quando Kalinda improvvisamente afferrò Jacklin per un braccio e le fece segno di tacere. I suoi profondi occhi si spalancarono e si concentrarono sul tunnel che proveniva da destra. Aprì una mano e in un lampo le loro torce si spensero. Jacklin rabbrividì. Una luce proveniva dal corridoio. Qualcuno stava avanzando. Jacklin si chiese chi potesse essere a quell’ora. Una guardia? Suo padre?….oppure…le tremavano le ginocchia al solo pensiero…Nefer. I passi che risuonavano nel corridoio non lasciavano dubbio: si trattava di due persone. Le due donne erano troppo vicine, le avrebbero sicuramente notate e non potevano muoversi, in quel posto anche una minuscola goccia d’acqua che si staccava dalle umide pareti risuonava fragorosamente. Decise senza troppo indugiare. Attese che la prima persona fosse ormai all’angolo, estrasse il bastone che aveva legato dietro la schiena. Ecco…una mano che impegnava una torcia. Jacklin si scagliò impulsivamente contro quella figura. Colpì al volto. L’uomo era stato evidentemente colto di sorpresa perché finì con un leggero tonfo per terra. Repentinamente però si rimise in piedi, strappò il bastone dalle mani di Jacklin e la colpì alle caviglie. La giovane si ritrovò riversa sul gelida superficie con gli occhi che riflettevano amaramente quel soffitto scuro e cavernoso. Poi credette di essersi assopita. Stava sognando. La sua mente stava vagando attraverso le scogliose spirali del tempo e dello spazio. Vedeva un uomo dai capelli scuri e fluenti, ricadenti sulle spalle. Nel sui occhi corvini guizzava energia vitale, abnegazione e un’insaziabile determinazione. Chi era? Guardò meglio. L’uomo era giovane, avrà avuto la sua età. Su uno zigomo campeggiava una profonda cicatrice.

Quell’immagine venne dissipata da qualcos’altro. Jacklin si chiese se stesse ancora sognando perché quel volto si trovava proprio di fronte a lei. Ma non era segnato dalla cicatrice. «Ben, è soltanto una ragazza…» disse il secondo uomo. Benjamin era indietreggiato, barcollando. Era come se quello scontro inaspettato avesse riportato alla sua mente ricordi che non poteva possedere. «…una ragazza – continuò l’altro – con sua mamma…ehm…nonna o…». Kalinda increspò le sopracciglia con disappunto: «Sono la sua insegnante. E voi chi siete?». Benjamin aiutò Jacklin ad alzarsi, cercando di comunicarle con gli occhi la propria costernazione. «Mi chiamo Benjamin, lui è Silver. Veniamo da Akras e siamo qui per recuperare le armi di mio padre Alexandre». Silver scosse il capo, sbuffando, «Certo…già che ci sei – lo schernì – perché non racconti loro la storia della tua vita?!». Kalinda si avvicinò ai due, squadrandoli. «Volete dunque farci credere che non siete dei ribelli? Che non siete fra quelli che hanno attaccato il palazzo durante la cena?».«Li abbiamo visti ma non siamo con loro. Abbiamo approfittato del caos della notte scorsa per infiltrarci nel palazzo – poi Benjamin indicò un rotolo che Silver impugnava – possediamo una pianta dei sotterranei, la sala con le armi dovrebbe trovarsi proprio qui vicino. Ma…- si voltò verso l’amico, certo che quanto stava per dire l’avrebbe infastidito – ci siamo persi…». «TI sei perso – sottolineò Silver con acidità accompagnata da un licenzioso sorriso – non sono certo io quello ha detto “Non ti preoccupare, ho sempre avuto un ottimo senso dell’orientamento”». Kalinda intanto stava dando un’occhiata alla mappa. «Ma questa l’ha disegnata Ligorio!» esclamò. Jacklin aguzzò la vista e si concentrò sulla firma che stava in basso a destra. Si, era proprio di Ligorio, suo nonno. O meglio, suo nonno adottivo. Kalinda decise che era il momento di presentarsi a due giovani, nascondendo però la loro vera identità. Disse che erano due domestiche della figlia del Soprintendente e che dopo la sortita notturna dei ribelli avevano deciso di fuggire dal palazzo, divenuto ormai un obiettivo dei ribelli. «Vi propongo uno scambio – continuò l’archigena – noi vi aiutiamo a trovare la sala che custodisce le armi e vuoi vi impegnate a scortarci fuori da Eldyron». Silver non sembrava convinto, continuava a stare sulla difensiva. A Ben sembrò invece un ottimo compromesso. Qualcosa lo portava a fidarsi delle due donne. Nello sguardo di Jacklin coglieva onestà e schiettezza. Si divertiva spesso ad indovinare il carattere delle persone come il cacciatore che osserva le tracce sul terreno e si lascia guidare dalla propria esperienza per ricondurle alla creatura che le ha impresse. Quella ragazza poi…la sua personalità gli appariva chiara e limpida come l’aria frizzante della mattina. «Allora siamo d’accordo – decise Ben per entrambi – ora diteci dove siamo». Kalinda studiò la pianta e non impiegò molto a riconoscere l’ingresso della porta di legno nella biblioteca e ad orientarsi sul percorso disegnato. La sala che ospitava le armi di Alexandre era lì, a pochi passi. Mentre si avviavano verso il punto indicato da Kalinda sulla pianta, Jacklin scrutò con attenzione i due uomini. Silver era sicuramente quello dall’aspetto più minaccioso ma da come Benjamin lo guardava doveva avere un cuore d’oro. «Dunque secondo i miei calcoli – borbottava Kalinda avanzando guardinga come un alligatore nella palude – la sala dovrebbe essere…», si interruppe bruscamente, facendo indietreggiare Ben e gli altri. «Qui c’è qualcosa… – sussurrò come se fossero circondati da orecchie indiscrete e allungò la torcia illuminando la parete – è un’iscrizione in iperiano antico: NESER EXITIOSA HEKA ESSE». Non c’era ombra di dubbio, erano davanti al luogo in cui riposavano le armi. «Ma cosa significa?» chiese Silver. Il volto di Kalinda si corrugò: «Il fuoco è una terribile maledizione» tradusse . «Ah, sai che novità» commentò Silver con la solita sfacciataggine. «Ah voi giovani – l’archigena si era già precipitata all’interno della sala – sempre pronti a credere a tutto quello che vi viene detto!». Facendo ingresso nelle profondità ignote di quel luogo, Benjamin e Jacklin non si risparmiarono una rapida occhiata di rimprovero al ragazzone dalla lingua troppo lunga. Poi i loro occhi cercarono di esplorare lo spazio circostante.

In che razza di posto si trovavano? Sembrava una cripta ricavata all’interno di un fatiscente palazzo di giustizia. Il soffitto non doveva essere molto alto, la sala in compenso pareva piuttosto lunga. Ma dov’era il sistema di illuminazione? Le pareti non mostrano presenze di torce o incastri. L’area era divisa in tre navate. Quelle laterali si snodavano in ampie logge sovrastare da archi ogivali. Kalinda si lascio sfuggire un gemito di sorpresa: «L’unica fonte di luce sembra essere quel candelabro – la sua attenzione era stata catturata da una struttura al centro della sala – il messaggio all’ingresso era eloquente. Il fuoco non è il benvenuto in questi luoghi. Questa cripta rappresenta il progetto di governo di Bromiorn. L’oscurità sulla terra – poi fissò Silver – e sulle menti. Il fuoco non è un elemento pericoloso ma il Signore del Cielo Oscuro temeva i sacerdoti di Uth e così li fece sterminare…». Benjamin si avvicinò cautamente al candelabro e lo esaminò.«Ecco perché di archigeni del fuoco non se ne vedono proprio» osservò, tenendo gli occhi sul grande candelabro in bronzo dotato di quattro bracci e sul quale torreggiava una cimasa con guerriero. Benjamin si voltò. Di colpo i suoi occhi furono sommersi da un’ondata di terrore. Una sagoma stava ritta, davanti a lui. I suoi lineamenti venivano fagocitati dalle tenebre. Cos’era? Ben sguainò istintivamente la spada. «Fermo!»: Kalinda lo trattenne, imperiosa. Poi diresse la luce della torcia verso la sagoma. Il panico svanì all’istante. «Specchi… – concluse Silver – come mai ci sono degli specchi?». «Credo di aver capito – Jacklin stava incendiando gli stoppini avvolti attorno ai quattro bracci – è un metodo per diffondere la luce. Deve averlo progettato Ligorio». In un attimo la cripta venne irradiata da fasci di luce debole ma uniformemente distribuita. Numerosi specchi di diverse dimensioni riflettevano la luminosità delle quattro gigantesche candele facendola rimbalzare da una superficie all’altra e creando un’atmosfera surreale. Nessuno di loro aveva mai visto niente di simile. Chissà quante ore deve aver perso il mio nonno adottivo in questa cripta – pensò Jacklin. Ora le caratteristiche di quel posto si difendevano tenacemente dall’ombra. Nelle due logge centrali opposte erano presenti due sarcofagi. Su tutte le colonne era scolpita una folgore iscritta in un triangolo mentre sulle pareti era affrescato un fregio continuo, appena sotto le volte, e illustrava la vita e le imprese di Barkrab, il “Maestro del Fulmine”, rappresentato con il suo tipico copricapo triangolare e con il corpo simile a quello di un selkhmet. I selkhmet erano animali che stavano a metà fra un coccodrillo e uno scorpione, una delle più aberranti alterazioni del Nexus sul mondo animale. «I sarcofagi devono appartenere a due generali dell’esercito di Bromiorn caduti durante la guerra dei Re Gemelli – spiegò Kalinda, poi indicò la loggia meno illuminata, quella che stava dalla parte opposta all’ingresso – e là devono essere seppellite le armi di Alexandre». Ben, Jacklin e Silver si destarono dal torpore che sembrava averli tenuti in ostaggio fino a quel momento. Si fiondarono verso la loggia e lessero ad alta voce l’iscrizione incisa su una lastra di granito nero distesa sul pavimento: VOLUNTATE UTHIS QUADISH AUCTOS. Jacklin si gettò in ginocchio sul bordo della lastra e tradusse: «”Per volontà di Uth egli morì”…forse intende Alexandre». «Certo – Kalinda annuì – è sempre in iperiano antico. Ma la parola “quadish” per un aidoniano come me può significare anche “santo”. È senza dubbio l’ultimo tributo di Ligorio al suo caro amico…». Lo sguardo dei presenti si posò con una certa naturalezza su Benjamin. Aveva gli occhi lucidi. Di commozione e di speranza. Quell’interrogativo dentro di lui, feroce e martellante, stava forse per trovare risposta. Si chiedeva quale fosse il suo ruolo in tutta quella storia. Ci fu un momento di silenzio poi qualcosa attirò l’attenzione di Silver: «Svelti – il suo viso si contrasse, allarmato – sta arrivando qualcuno, dobbiamo spegnere le torce». Jacklin utilizzò l’acqua della borraccia per spegnere tutte le fonti di luce. Come avrebbero potuto poi muoversi al buio? Ora si avvertivano distintamente sia i passi che le voci. Appartenevano a due persone. Jacklin si sentì quasi soffocare dal panico, poi cercò di ingoiarlo. Erano Nefer e Origon.

Eleonora Poltronieri

Grafica: Mattia Ferrari

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